Francesco Bindi, 30 anni, Roma
Sotto gli arabeschi del bosco di mogano, tra sciabolate di luce che non fanno paura alle viole, alle primule e a tutti gli altri fiori di cui non importa, cari bambini, non importa conoscere il nome per innamorarsene, volavano due carrozze bianche come la farina e anche i cavalli dagli zoccoli e dai pennacchi color lavanda erano bianchi e anche i cocchieri se ci fossero stati sarebbero stati bianchi, ma al loro posto c’erano invece delle signore che bevevano un tè chiaro e si davano una grande importanza, forse a causa dei pizzi e dei merletti, così leggeri all’apparenza, come la nebbia del mattino. Ma chi erano, all’interno, questi passeggeri tanto importanti? In realtà , non c’era nessun passeggero e anche i merli ormai, nonostante il loro infinito disprezzo per la mondanità , sapevano cosa contenessero quelle ricche carrozze.
Vestiti, bambini miei, vestiti! Vestiti di tutte le stoffe e di tutte le fogge, vestiti da sera e vestiti da passeggio, per andare a cavallo e per scendere da cavallo, vestiti adatti all’altalena, con la gonna a pallone, e vestiti per il sorbetto. I vestiti per il sorbetto devono avere il polsino a imbuto. E ancora, vestiti ricoperti di perle o con la spilla d’oro a spirale, senza bottoni o con tanti bottoni da accontentare un capitano maggiore. Ma basta con gli elenchi, che non piacciono ai bambini intelligenti. Avete capito che le due carrozze contenevano tanti, tanti vestiti e adesso dovrei dirvi, senza perdere altro tempo, la cosa più difficile da indovinare. A chi, cioè, appartenevano le due misteriose carrozze in volo sotto gli arabeschi del bosco di mogano. Oh, ma quanto chiacchierano le signore a cassetta!
«E’ tutta colpa dello specchio, zia Natalina. E lo zucchero è finito! Come odio quello specchio! »
«Si capisce, colpa dello specchio! Povera Duchessa, dev’essere stregato. Ma allo zucchero dovevi pensarci tu, scemina! »
«Lo hanno beccato gli usignoli, zia Cornelia, non è colpa di Elvira. Mon Dieu, quanta polvere sul mio cucchiaino! »
«Che noiose! Sentite questo bell’indovinello russo, invece: qual è la freccia che vola per sempre? »
«Anche l’indovinello ci mancava. Non bastasse uno specchio a cui non piacciono i vestiti della Duchessa! »
«E lei che non esce più dalla sua stanza! E il povero Duca, che a furia di aspettarla in giardino si è addormentato! »
«E come dorme, il Duca, mon amie! Gli è cresciuta l’edera fin dentro il cappello! »
«Ieri, si dice, è sbocciata una rosa blu proprio dentro il suo bicchiere di champagne! Non è bello, il sonno dei giovani? »
«E noi in su e in giù per il ducato, a cercare il vestito che piaccia allo specchio! Povere noi, vita ingrata! »
Le zie dicevano il vero, cari bambini. Le carrozze erano proprio di una Duchessa. Questa Duchessa, infatti, passava i suoi giorni a cambiarsi d’abito davanti a uno specchio parlante, opera del Diavolo in persona, che le proibiva regolarmente di uscire «conciata in quel modo », come diceva lui. E lei ordinava vestiti, vestiti e vestiti da dare in pasto allo specchio. Sì, miei cari, perché lo specchio, poi, mangiava i vestiti che non gli piacevano, facendo glu glu, per giunta. Ma non è finita qui. Nell’attesa di vedere finalmente la Duchessa, non soltanto il Duca ma tutti i sudditi si erano a poco a poco addormentati e le campagne si erano seccate, gli erpici arrugginiti affondavano tra le gaggìe e le spazzole, alla sera, restavano incastrate tra i capelli annodati delle bambine. Perché anche le loro madri erano stanche di aspettare.
E ogni giorno il Duca faceva un sogno. Nel sogno vedeva la Duchessa uscire dalla sua stanza ma essa non indossava l’abito con la spilla d’oro a spirale e neppure quello per il sorbetto. No, la Duchessa portava addosso un vestito grigio, vecchio e logoro che al posto dei ricami aveva polverosi rammendi e sopra di essi un grembiule macchiato dal lavoro. Anche la casa da cui usciva per venirgli incontro non era il castello ducale ma una povera dimora, misera ma ridente e piena di quella decenza che solo la povertà possiede, specialmente nelle fiabe. E la Duchessa rideva e lo abbracciava forte, felice per la crescita rigogliosa del timo e del basilico selvatico, che nel sogno sembrava un buon auspicio.
Vivevano in un mondo antico e reale, tra pastori e cacciatori, in mezzo a gente che non conosceva l’ironia e il ghigno cortigiano di chi non sa perché ride, ma solo l’allegria e la stanchezza di una giornata piena di doveri. Ai ladri venivano tagliate le dita e la luna riempiva i cuori dei poeti di parole pesanti come pietre. Quando il Duca, che non era più Duca, guardava i suoi figli disegnare sui vetri appannati di gennaio e la Duchessa, che non era più Duchessa, gli chiedeva di passargli le forbici per tagliare un filo troppo forte, un pezzo di quercia si spezzava nel caminetto quasi senza rumore. Inoltre, se capitava che un giovane di quel mondo si fermasse davanti a uno specchio, strano a dirsi, egli si riconosceva subito e scoppiava a ridere. I vecchi, infine, erano padroni dei loro muretti come di poltrone di senatori. Lui, era uno di essi.
Ma questa ultima immagine, che sembrava giungere alla fine di un infinito corteo di memorie, giungeva sempre accompagnata da un sentimento di indicibile tristezza perché il Duca sapeva di essere, a quel punto, vicino al risveglio. Una brezza leggera si alzava attraverso la spessa realtà del sogno per guidarlo, gentilmente, come si fa con un ospite di riguardo, tra gli alberi fino a un prato davanti al quale si apriva la vista di un grande lago. Era una profondissima notte d’estate, sospesa e riflessa assieme al canto dei grilli sopra l’enorme specchio d’acqua. Lentamente, una macchia blu si dilatava sotto la sua superficie, si dilatava come se qualcosa stesse risalendo, o tentando di risalire. E il Duca vi cadeva dentro senza un pensiero.
Non lo credereste mai, miei teneri lettori, ma aprendo i suoi begli occhi coperti di edera, il Duca dimenticava sempre, sempre quel sogno e con un dolcissimo, pigro sorriso contemplava affascinato la rosa blu che cresceva dentro il suo bicchiere di champagne. Ai servi col tricorno ocra che si trascinavano per i sentieri del giardino carichi di vassoi vuoti, chiedeva se la Duchessa, infine, era pronta. Questi, inchinandosi con sussiego, facevano cascare tutti i vassoi uno ad uno e poi, con uno sbadiglio, rispondevano di no. Allora il Duca, dopo aver ringraziato, beveva un sorso di champagne e si riaddormentava. La Duchessa, anche quel giorno, avrebbe tardato.
Ma intanto, sotto gli arabeschi del bosco di mogano, tra sciabolate di luce che non fanno paura alle viole, alle primule e a tutti gli altri fiori di cui non importa conoscere il nome per innamorarsene, volavano, ormai lo sapete meglio dei merli, due carrozze bianche come due farfalle bianche, piene di vestiti. Oh, bambini miei, se chiacchierano queste zie!
«E’ tutta colpa dello specchio, dello specchio! Ohi, ohi, la mia unghia incarnata! »
«E’ finito anche il latte! Zia Bruna, basta dare il latte ai barbagianni, quando c’è chi crepa di sete! »
«Insomma, chi risponde al mio indovinello? »
«Secondo me, c’è dietro un complotto. Facile, dare la colpa al Diavolo! »
«Avrà i suoi interessi, stanne certa, Cecilia. E non affaticarti in quel modo, o diventerai pazza del tutto. »
«Palmirina, rispondimi almeno tu. Qual è la freccia che vola per sempre? »
«Che domande, figlia mia. Quella che manca il bersaglio, naturalmente. » |